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Settembre 2020
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Come si differenziano e come riconoscerleBuongiorno cari lettori,
entriamo nuovamente nel tema della maternità e vediamo insieme alcuni aspetti legati al periodo del post-partum che penso sia importante conoscere per poterli eventualmente ri-conoscere e procedere con un aiuto. Sto parlando della depressione post-partum e del Maternity Blues. Prima che vi spieghi le differenze tra i due, vorrei comunque rasserenarvi sul fatto che molte mamme al termine del periodo della gravidanza e dopo il parto, si trovano in una condizione di maggiore fragilità fisica e emotiva. Alle prese con nuove responsabilità e con la gestione di un nuovo nato mentre ancora stanno cercando di riprendere contatto con il proprio corpo dolente dal parto. In questo è da considerare anche l’allattamento che, sia che si allatti naturalmente sia che lo si faccia con il latte artificiale può portare talvolta a dubbi, sensi di colpa e difficoltà. Non è per tutti uguale, ogni mamma è diversa, così come è diversa ogni maternità anche della stessa mamma, ma chiaramente non possiamo trascurare il peso che questi fattori giocano soprattutto nel post parto dove la mamma impara gradualmente dei nuovi ritmi con il proprio piccolo, con sé stessa e con chi le sta intorno. Cos’è il maternity blues e come riconoscerlo? Il maternity blues (o baby blues o blues del post-parto) è fisiologico e può comparire entro i primi cinque giorni dal parto. Solitamente il suo decorso è transitorio e la situazione tende a rientrare entro una decina di giorni. In questo periodo la mamma può iniziare a sentirsi triste, avere delle crisi di pianto, sentirsi irritabile, soffrire di ansia, insonnia e percepirsi inadeguata rispetto alle proprie capacità di essere mamma. Solitamente questa condizione non impatta però sulle reali capacità di essere una brava mamma, però è importante in questo periodo stare vicino alla mamma, sostenerla nel suo nuovo ruolo, darle la possibilità di esprimere quello che prova nel e nel male senza giudicarla. È importante anche tenere sotto controllo l’evolversi della situazione che in alcuni casi può diventare una depressione post-partum. Cos’è la depressione post-partum e come riconoscerla? La depressione post-partum invece è una condizione grave che compromette il funzionamento della mamma di prendersi cura di sé stessa e anche del proprio bambino. È importante che venga riconosciuta e curata tempestivamente. I sintomi possono presentarsi a distanza di quattro-sei settimane dopo il parto e posso protrarsi per almeno. La mamma può percepirsi depressa per la maggior parte del tempo, avere modificazioni nell’appetito e nell’assunzione di cibo, può perdere piacere e interesse (anche verso il bambino), vi sono modificazioni nel sonno, irritabilità, agitazione o rallentamento psicomotorio, possono esserci confusione e disorientamento, faticabilità o mancanza di energia per la gran parte del tempo, pensieri. Come aiutare una mamma che non sta bene? In questi casi è fondamentale rivolgersi a un esperto. È importantissimo anche creare una rete di sostegno. Non lasciatela sola in questo momento difficile. La depressione non si cura da sola e non è una malattia da sottovalutare. A presto! Dott.ssa Sara Pontecorvo
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RIMUGINIO18/5/2020 Quando il troppo pensar non porta a nullaCari lettori, oggi vorrei proporvi il tema del “rimuginio” detto anche “worry”, argomento poco dibattuto, ma in realtà molto comune. Avevo introdotto il tema del rimuginio nel mio canale Telegram (t.me/psicologasarapontecorvo) attraverso una vignetta molto simpatica dei Peanuts dove Snoopy e Charlie Brown stanno apparentemente svolgendo una partita a scacchi. La mente di Charlie Brown però sembra essere impegnata a pensare negativamente, il pensiero non è rivolto alla soluzione e alla strategia, ma è impegnato a prevedere l’evento temuto (la perdita) spostando il focus su quello che Snoopy potrebbe architettare. Il suo pensiero non è orientato al problem solving (risoluzione di problemi), ma sembra invece allontanarlo dalla risoluzione del problema. Chiaramente questo è solo un piccolo esempio per spiegare un fenomeno invece piuttosto complesso che a volte può compromettere il normale funzionamento di una persona. Come sarà andata questa partita a scacchi non lo sappiamo, però forse ora possiamo addentrarci di più nel tema del rimuginio. Definizione Il rimuginio è un processo mentale in cui il soggetto sperimenta, in modo relativamente incontrollabile, un concatenamento di pensieri negativi ripetitivi riguardanti possibili eventi avversi che potrebbero accadere nel futuro (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Dunque il rimuginio consiste di PENSIERI che sono NEGATIVI e RIPETITIVI e verso i quali la persona non sente di avere un controllo. Perché il rimuginio è un processo mentale poco conosciuto? Forse avrete sentito parlare poco di rimuginio, e una motivazione c’è. Se vi interessa questo tema, troverete molti scritti nell’area della psicologia cognitivista. In Italia, il gruppo di lavoro maggiormente operativo è quello di Sassaroli e Ruggiero che sostengono che questa indifferenza rispetto al rimuginio potrebbe essere dovuta alla traduzione inappropriata del termine worry che ha portato a una maggiore confusione rispetto all’uso del termine e non ad un effettivo disinteresse (Sassaroli, Lorenzini & Ruggiero, 2006). Sembrerebbe infatti che il rimuginio sia un sintomo principe del disturbo d’ansia generalizzato e in generale viene legato all’ansia e contribuisce significativamente all’origine e al mantenimento di certi disturbi ansiosi. Ma può essere connesso anche ad altri disturbi come per esempio l’insonnia dove l’individuo soffre di “intrusioni cognitive” che gli impediscono di addormentarsi. Lo troviamo anche nei disturbi alimentari dove le preoccupazioni sono principalmente rivolte al cibo e all’aspetto fisico, nel dismorfismo corporeo dove le preoccupazione sono incentrate su alcune parti del corpo che vengono sentite come brutte e intollerabili per l’individuo. Potremmo dire che il rimuginio può essere presente in modi diversi e può toccare diverse aree, quello che lo contraddistingue è l’incontrollabilità, la ripetitività e il fatto che non consente di trovare realmente soluzioni, ma comporta una specie di paralisi del pensiero e un senso di impotenza. Un po’ come entrare in un loop da cui è difficile uscire. Quando invece sentite parlare di “ruminazione” fate attenzione, perché non si sta parlando di rimuginio, ma di un processo di pensiero tipico della depressione che si differenza dal rimuginio per la forma e per i contenuti. Ne parlerò in un prossimo articolo. Perché si rimugina? La prospettiva cognitivista ha permesso di comprendere che il rimuginio diventa un modo abituale di gestire determinati conflitti emotivi o emozioni disturbanti attraverso l’evitamento cognitivo (Borkovec, 1994; Sibrava & Borkovec, 2006). Le loro ricerche mostrano come si tratti di una risposta di evitamento cognitivo rispetto ad ipotetici eventi futuri che vengono percepiti come minacciosi e che il soggetto tenta di affrontare attraverso l’uso eccessivo del pensiero verbale negativo e di come nasca anche per sopprimere immagini avversive o emozioni disturbanti. Cosa significa? Il rimuginatore cerca di gestire ed evitare le emozioni che lo disturbano usando il pensiero verbale. Qual è la fregatura?
Dunque quella che nasce come strategia per risolvere i problemi conduce in realtà a una minor capacità di problem solving. Il fatto che l’immaginazione visiva scarseggi non consente di rappresentarsi realmente il possibile danno. L’evitamento dell’emozione porta poi al disorientamento e all’incapacità di valutare ciò che soggettivamente viene percepito come giusto o sbagliato, come pericoloso o non pericoloso. Rimuginare diminuisce l’immaginazione visiva Una dimostrazione di questo aspetto deriva da uno studio di Borkovec e Inz (1990) dove è stata comparata la quantità di pensiero e di immaginazione visiva in soggetti con disturbo d’ansia generalizzato e soggetti non ansiosi durante stati di rilassamento e stati di rimuginio indotto. I risultati di questo studio indicano che durante lo stato di rilassamento i soggetti non ansiosi riportavano una quantità maggiore di immaginazione visiva rispetto ai soggetti con disturbo d’ansia generalizzato (DAG) che mostravano una eguale quantità di pensiero ed immaginazione visiva. Invece, durante gli stati di rimuginio indotto sia i soggetti DAG che i controlli mostravano quantità prevalenti di pensiero verbale rispetto all’immaginazione visiva. E’ possibile ipotizzare che, se l’immaginazione visiva rappresenta il veicolo primario per l’attivazione somatica delle emozioni, l’incremento dell’attività verbale costituisca un modo per evitare che ciò avvenga; dunque il rimuginio ha lo scopo, più generale, di evitare gli affetti, e più specifico di evitare un’esperienza ansiosa emotivamente carica. Si rimugina per paura di qualcosa di imprevisto Due ricercatrici cognitiviste, Newman e Llera, (2011), hanno proposto un nuovo modello di rimuginio che si pone in contrapposizione con il modello cognitivo dell’evitamento emotivo finora esposto. Esse suppongono che le problematiche di questi soggetti siano connesse al timore di sentire emozioni negative, ma siano soprattutto connesse alla paura di avere un’esperienza negativa e imprevista che possa modificare improvvisamente il loro stato emotivo. Sembrerebbe dunque che queste persone abbiano la tendenza a percepirsi come emotivamente vulnerabili rispetto a possibili eventi imprevisti e utilizzerebbero il rimuginio per evitare rischi di questo tipo. Il rimuginio infatti consentirebbe il mantenimento di uno stato emotivo prolungato e ciò paradossalmente farebbe sentire il soggetto meno in pericolo. A Presto! Dott.ssa Sara Pontecorvo Bibliografia:
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Rubrica sui meccanismi di difesa10/5/2020 Cari lettori,
ho pensato di proporvi una rubrica che vi consentirà di conoscere alcuni aspetti del funzionamento della nostra mente che sono presenti in modi diversi in ognuno di noi. Vorrei parlarvi di alcuni meccanismi che in ambito psicologico e clinico prendono il nome di "difese", "meccanismi di difesa", "difese psichiche" e sono molto importanti perché spesso regolano il modo in cui gestiamo il dolore, le angosce, noi stessi e le relazioni. Oggi vi spiegherò in cosa consistono e prossimamente vi descriverò alcuni dei meccanismi più importanti. COSA SONO I MECCANISMI DI DIFESA E A COSA SERVONO? Con il termine meccanismo di difesa si fa riferimento a un’operazione mentale che avviene al di fuori della consapevolezza. La sua funzione è quella di proteggere l’individuo dal provare eccessiva angoscia, che si manifesterebbe nel momento in cui diviene consapevole di pensieri, impulsi o desideri inaccettabili. Una funzione addizionale sembra essere la protezione del sé, dell’autostima e, in casi estremi, dell’integrazione del sé, come nel caso delle psicosi (Cramer, 1998). Secondo Vaillant (2000) le difese sono estremamente importanti nel ridurre l’ansia derivante da una dissonanza cognitiva così come le sono nel minimizzare l’ansia che scaturisce dal conflitto tra coscienza e impulsi. Nancy McWilliams (1994/1999) però sostiene che “difesa” sia un termine infelice. Possiamo definirla tale quando opera per difendere il Sé da una minaccia, in questo caso, l’uso della difesa implica l’evitamento di sentimenti angosciosi e/o minacciosi e il mantenimento dell’autostima. Ma le difese hanno anche delle funzioni positive, sono infatti degli adattamenti sani e creativi che durano per tutta l’esistenza. COME FACCIAMO A CAPIRE SE CI DIFENDIAMO IN MODO SANO OPPURE NO? In primo luogo è importante sapere che ognuno di noi privilegia l’uso di particolari difese che poi diventa il nostro modo di affrontare i problemi. Il ricorso a una particolare difesa o "costellazione di difese" deriva, secondo McWilliams dall’interazione di quattro fattori: - la natura dei disagi subiti nella prima infanzia, - il temperamento, - le difese presentate dai genitori - le conseguenze sperimentate dall’uso di specifiche difese. Come facciamo dunque a capire quando ci difendiamo in modo non sano? Partiamo dal presupposto che difendersi fa parte della normalità, se non ci difendessimo, ne andrebbe della nostra sopravvivenza. Quando un individuo è dotato di un "buon funzionamento difensivo", vengono utilizzati in modo non massiccio molteplici meccanismi di difesa differenziati tra loro anche nel grado di maturità (esistono infatti meccanismi di difesa più maturi e più primitivi, a breve spiegherò la differenza). Ciò non significa che non vengano utilizzati meccanismi di difesa primitivi, ma che il loro utilizzo non è così rilevante da impattare sulla vita della persona. Può capitare anche che sottoposti a forti stress o traumi la mente per proteggersi dal dolore, utilizzi tali meccanismi senza però compromettere il nostro funzionamento e il nostro modo di pensare o di approcciarci agli altri. Quando una persona utilizza invece massicciamente una o più difese oppure utilizza moltissime difese più primitive allora ciò sicuramente implicherà un funzionamento meno sano con alta probabilità che queste difese siano accompagnate da sintomi psicopatologici o da veri e propri disturbi di personalità (si veda paragrafo "Difese e patologie"). Tipologie di difese McWilliams distingue tra difese primarie e secondarie. - Difese primarie: sono considerate di “ordine inferiore”, sono “immature” e “primitive” e riguardano il confine tra il Sé e il mondo esterno. Il loro funzionamento avviene in modo globale e indifferenziato fondendo l’affettività, la cognizione e il comportamento, tra queste troviamo il diniego, la proiezione, la scissione, l’identificazione proiettiva ecc. - Difese secondarie (o di “ordine superiore”) sono più evolute e riguardano i confini interni (per esempio, tra l’Io, il Super-Io e l’Es). A questo livello vengono operate modificazioni del sentimento, del pensiero, del comportamento o di una combinazione tra questi, qui troviamo la rimozione, l’isolamento, lo spostamento, la formazione reattiva, la sublimazione ecc. Difese e patologie Spesso le principali categorie diagnostiche utilizzate dai terapeuti per definire i tipi di personalità fanno riferimento all’azione continuativa nella persona di una specifica difesa o costellazione di difese. Ecco alcuni esempi: Un’organizzazione di personalità che ruota attorno alla proiezione viene definita paranoide, mentre una costellazione di difese tipica delle personalità ossessive e compulsive è costituita da isolamento, annullamento, formazione reattiva e spostamento. La personalità narcisistica è caratterizzata dall'uso massiccio di svalutazione, idealizzazione e onnipotenza mentre la personalità borderline ricorre spesso all'utilizzo della scissione, identificazione proiettiva, acting out e proiezione. Spero vi sia piaciuto, per ogni dubbio scrivetemi pure alla mia mail [email protected] A presto! Dott.ssa Sara Pontecorvo Psicologa Bibliografia - Cramer, P. (1998). Defensiveness and defense mechanisms. Journal of Personality, 66 (6), 879-894. - McWilliams, N. (1994). Psychoanalytic Diagnosis: Understanding Personality Structure in the Clinical Process. New York, London: The Guilford Press. (tr. it. La Diagnosi Psicoanalitica., Roma: Astrolabio Editore, 1999). - Vaillant, G. E. (2000). Adaptive Mental Mechanisms. Their Role in a Positive Psychology. American Psychologist, 55 (1), 89-98.
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Sensibilità al rifiuto7/5/2020 Origine, caratteristiche e gestioneCari lettori,
Oggi vorrei parlarvi della sensibilità al rifiuto. Nelle nostre esperienze di vita può essere capitato a ciascuno di noi di sentirsi rifiutato, magari da bambino quando voleva stringere amicizia con un gruppetto di altri bambini oppure da un partner, da un colloquio di lavoro, da un amico o da un gruppo. Talvolta queste esperienze sono particolarmente dolorose, ma pensate a quando queste sono ripetute nel tempo. E se i primi e ripetuti rifiuti fossero arrivati proprio da chi si è preso cura di noi? Come impatta sulle nostre successive relazioni? Naturalmente non dobbiamo dimenticarci anche del ruolo che rivestono o che hanno rivestito le esperienze fra pari in adolescenza perché è proprio in questa fase caratteristica che il rifiuto o l’accettazione hanno un ruolo pregnante. Downey e Feldman (1996) hanno elaborato proprio il costrutto di “sensibilità al rifiuto” per spiegare il motivo per il quale le persone che hanno avuto esperienza ripetute di rifiuto a partire dai propri caregiver, abbiano poi delle difficoltà nelle relazioni successive. Quando una persona subisce rifiuti ripetuti, infatti, soprattutto nelle prime relazioni con i propri genitori o caregiver allora è probabile che questi abbiano degli effetti a lungo termine influenzando lo sviluppo emotivo e cognitivo. In che modo?
Una profezia che si auto-avvera La sensibilità al rifiuto dunque definisce la tendenza a dare eccessivo peso o a reagire esageratamente ai segnali di rifiuto delle persone. In un certo senso la persona si aspetta di essere rifiutata, ma questa aspettativa spesso è associata ad un bias (errore) nella percezione dei segnali di rifiuto. Questa ipersensibilità al rifiuto può generare un circolo vizioso relazionale dove spesso la persona attira effettivi rifiuti: se ci si aspetta di essere rifiutati, ci si può tenere distanti dagli altri e questo tendenzialmente porta gli altri a rispondere con altrettanta distanza, ma nella persona ipersensibile al rifiuto questo comportamento dell’altro viene visto come la prova di non accettazione e conduce a una maggiore chiusura relazionale. Due tipologie di reazioni difensive al rifiuto Secondo Downey, Lebolt, Rincòn et al. (1998) esistono due modalità che le persone “sensibili al rifiuto” possono utilizzare: a) ansiosa b) aggressiva Altri studi inoltre, hanno riscontrato che le persone che utilizzano la modalità ansiosa sono più propense sviluppare una sintomatologia “internalizzante” cioè esprimere il proprio disagio e la propria sofferenza psichica attraverso manifestazioni rivolte all’interno, come per esempio, ansia, depressione, somatizzazioni, ritiro sociale. Le persone che invece utilizzano la modalità aggressiva utilizzano maggiormente la modalità “esternalizzante” che significa esprimere il proprio disagio e la propria sofferenza attraverso comportamenti rivolti all’esterno e provocando una situazione di difficoltà e disturbo nell’ambiente come per esempio nei disturbi del comportamento (ADHD, disturbo oppositivo-provocatorio ecc.) Fattori protettivi in adolescenza Secondo lo studio di Grazia e Molinari del 2018, è possibile che il sentimento di appartenenza all’interno del contesto scolastico funga da fattore protettivo e dunque maggiore è questo sentimento minore è la sensibilità al rifiuto. Secondo le autrici dunque è importante che gli studenti si sentano coinvolti nella vita di classe così che questo possa mitigare, qualora emergenti, gli stati ansiosi dovuti al confronto con i pari. Altri studi (London, Dowey e Mace, 2007) hanno dimostrato che il senso di agency degli studenti è collegato alla sicurezza nelle interazioni con i pari, a una maggiore apertura e dunque ad avere una maggiore fiducia e propositività verso gli altri. Come gestire la paura del rifiuto Quando ci troviamo di fronte a una potenziale situazione di rifiuto prendersi del tempo per riflettere sulle varie possibilità e spiegazioni che potrebbero indurre l’altra persona ad avere un atteggiamento rifiutante o distanziante. Prendersi del tempo anche per esplorare il ruolo che noi assumiamo all’interno della relazione e come il nostro comportamento potrebbe aver influenzato la situazione. Cercare di avvicinarsi agli altri, senza essere prevenuti, allargare per quanto possibile le proprie conoscenze e darsi la possibilità di esplorare differenti relazioni, gruppi e situazioni. Ricordarsi sempre che essere rifiutati non significa essere privi di valore, a volte un rifiuto non è collegato direttamente alla nostra persona. A presto! Dott.ssa Sara Pontecorvo Bibliografia
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Solitamente tutte le coppie, al di là che abbiano deciso di avere un figlio, affrontano dei continui aggiustamenti e delle riorganizzazioni dovute ai cambiamenti che si trovano ad affrontare durante la vita. Queste riorganizzazioni hanno lo scopo di mantenere la stabilità della coppia, ma anche la sua identità, ogni coppia infatti possiede un’identità propria data dall’incontro tra due individui. Cosa succede dunque nella coppia quando nasce un figlio? La coppia deve affrontare in un certo senso un “crisi” che però ha uno scopo evolutivo, è fisiologica e che impone appunto una riorganizzazione identitaria delle coppia e dei singoli partner. Questo significa che la coppia può presentare dei momenti difficili proprio in questo periodo, ma che questi non comportano per forza una rottura o una patologia. Impatto positivo avrà la flessibilità della coppia rispetto al cambiamento e all’inserimento di un terzo. I momenti difficili che la coppia può affrontare possono essere dovuti a una serie di aspetti: 1. Diventare genitori comporta modifiche nella propria identità: “Adesso sono una mamma”, “sono diventato papà”. Frasi che i genitori ripetono spesso con orgoglio, ma a volte anche con una certe diffidenza proprio per la novità e le difficoltà che il nuovo ruolo di genitore comporta. Quando nasce un figlio, nascono infatti anche due genitori. Questo non può che comportare delle modifiche nella nostra identità che deve includere anche “l’essere genitore” e tutto ciò che questo comporta nel bene o nel male. Va da sé che queste modifiche identitarie a volte possono farci sentire spaesati, insicuri e fragili. 2. Diventare genitori comporta il riattivarsi delle rappresentazioni interne dei nostri genitori (cioè come i nostri genitori si sono presi cura di noi). E’ possibile che i forti bisogni di cura e di dipendenza del neonato “riattivino” in ogni membro della coppia le rappresentazioni interne dei propri genitori in cui la persona si riconosce e quindi cerca di ripetere oppure non riconoscersi e dunque prenderne le distanze. La genitorialità può anche comportare un’opportunità per riprendere in mano situazioni problematiche della propria infanzia che possono essere rielaborate grazie al fatto di essere diventati genitori. 3. Diventare genitori comporta l’ingresso nella coppia di un “terzo”. L’ingresso di una terza persona può riattivare vissuti di esclusione, ma ci possono essere anche profondi coinvolgimenti che possono alternarsi nei vari momenti. Il passaggio dall’essere in due all’essere in tre può essere anche visto positivamente qualora i membri della coppia lo considerino come un rafforzamento e una dimostrazione del loro legame e come una conferma delle proprie capacità. 4. Diventare genitori comporta una riorganizzazione delle proprie abitudini La gravidanza, il parto, il post-parto e i primi mesi di vita del bambino mettono a confronto con un senso di perdita temporanea delle proprie abitudini e dei propri ritmi quotidiani che devono essere riadattati (sonno, alimentazione ecc.). Spesso la coppia deve affrontare anche un cambiamento nella sessualità dovuta naturalmente sia ai cambiamenti fisici e ormonali che il parto e il post-parto comporta sia anche a trovare dei momenti specifici per la coppia che è assorbita dalla cura del nuovo nato. Come affrontare dunque questo delicato periodo? È importante costruire gradualmente dei ritmi comuni che consentano a tutti un graduale riadattamento. Cercate dunque di essere flessibili l’uno verso l’altra e con il neonato. Venitevi incontro e supportatevi. Utilizzate le risorse che arrivano dall’ambiente per quanto possibile (nonni, zii, amici ecc.), che possono essere non solo un supporto concreto, ma anche un aiuto per sé stessi. Qui sotto troverete il video che ho girato per il Gruppo Supermamme di Sesto San Giovanni in collaborazione con OsteopaticaMente Sperando di essere stata utile, alla prossima! Dott.ssa Sara Pontecorvo
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Figli e utilizzo dei videogiochi6/5/2020 Pro e contro del loro utilizzoBuongiorno cari lettori, Oggi parleremo dell’utilizzo dei videogiochi. Spesso noi genitori ci chiediamo se e quanto far utilizzare i videogiochi ai nostri figli. I nostri figli sono definiti “nativi digitali”, ciò significa che essendo nati nell’era in cui la tecnologia fa parte delle nostre vite, dobbiamo tenere conto che questo influisce sul loro sviluppo e sul modo in cui li educhiamo che sarà indubbiamente differente rispetto alle generazioni precedenti. Oggi più che mai i bambini iniziano a usufruire presto delle tecnologie e soprattutto dei videogiochi. A volte è difficile riuscire a capire quali videogiochi far loro utilizzare e per quanto tempo, così come si può essere dubbiosi rispetto all’utilità che i videogiochi hanno per la crescita, senza tener conto che indubbiamente spesso contengono elementi aggressivi e violenti che ci spaventano e che ci fanno pensare che potrebbero influenzare e indirizzare negativamente i comportamenti dei nostri figli. Negli ultimi anni inoltre stanno spopolando giochi come Fortnite che richiedono un’interazione e un collegamento online con altre persone e che spesso tengono ancorati i nostri figli per ore sullo schermo del computer o delle consolle. Come possiamo dunque trovare un giusto equilibrio rispetto ai videogiochi? In primo luogo dovete sapere che esistono moltissimi videogiochi e non tutti sono violenti e che i videogiochi più aggressivi sono di solito vietati ai minori di 14 anni, ma sappiamo anche che spesso i nostri figli li utilizzano lo stesso, allora il mio suggerimento è, lasciarsi coinvolgere nel gioco, per poter osservare direttamente e eventualmente mediare rispetto ai contenuti. Sempre rispetto all’aggressività vi sono stati diversi studi che sostengono in effetti che contenuti aggressivi possono aumentare l’aggressività in certi soggetti, ma non in tutti, perché esistono dei fattori protettivi, tra i quali un utilizzo equilibrato e, mi sento di aggiungere, la mediazione dei genitori. I fattori che possono avvicinare molto all’utilizzo di videogiochi aggressivi possono essere appunto un temperamento maggiormente alla ricerca di sensazioni (sensation seeker) o un temperamento maggiormente aggressivo. Vi sono però dei fattori positivi nell’utilizzo dei videogiochi. Alcuni studi hanno dimostrato che l’utilizzo dei videogiochi può favorire alcuni aspetti del funzionamento cognitivo tra i quali quelli legati all’attenzione visiva, ma anche alle abilità visuo-spaziali. Un secondo suggerimento che vorrei darvi riguarda il tempo di utilizzo. Come ogni cosa, l’abuso o l’uso eccessivo non è salutare, dunque dobbiamo provare a regolarlo accordandoci con i nostri figli, soprattutto se sono adolescenti. Credo sia importante lasciare che abbiano uno spazio durante il giorno, dopo aver fatto i compiti, definito temporalmente, in cui poter giocare, magari anche insieme a voi perché no. Soprattutto in adolescenza, i videogiochi rivestono un’importanza notevole anche per il loro aspetto sociale, infatti i ragazzi si trovano in collegamento tra di loro. Questo apparentemente può sembrare uno svantaggio, ma nell’epoca in cui ci troviamo alcuni aspetti sono stati spostati nel virtuale e dobbiamo accettare che è così per tutti, non solo per i nostri figli. Per i ragazzini che soffrono di ritiro sociale, che per motivi di fragilità personale non riescono ad affrontare la realtà quotidiana, è stato ampiamente dimostrato che l’utilizzo del virtuale gli ha consentito di far sopravvivere parti di sé e quindi utilizzare la rete come un laboratorio identitario, utilizzano questo altro mondo che per loro diventa un modo per assolvere a dei compiti evolutivi. Quindi genitori, state vicino ai vostri figli, cercate di conoscere il loro mondo anche attraverso i videogiochi e aiutateli a regolarsi e a riflettere quando lo ritenete opportuno. A presto. Dott.ssa Sara Pontecorvo Qui potrete trovare il video che ho girato per il gruppo SuperMamme di Sesto San Giovanni su questo argomento: |