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Settembre 2020
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RIMUGINIO18/5/2020 Quando il troppo pensar non porta a nullaCari lettori, oggi vorrei proporvi il tema del “rimuginio” detto anche “worry”, argomento poco dibattuto, ma in realtà molto comune. Avevo introdotto il tema del rimuginio nel mio canale Telegram (t.me/psicologasarapontecorvo) attraverso una vignetta molto simpatica dei Peanuts dove Snoopy e Charlie Brown stanno apparentemente svolgendo una partita a scacchi. La mente di Charlie Brown però sembra essere impegnata a pensare negativamente, il pensiero non è rivolto alla soluzione e alla strategia, ma è impegnato a prevedere l’evento temuto (la perdita) spostando il focus su quello che Snoopy potrebbe architettare. Il suo pensiero non è orientato al problem solving (risoluzione di problemi), ma sembra invece allontanarlo dalla risoluzione del problema. Chiaramente questo è solo un piccolo esempio per spiegare un fenomeno invece piuttosto complesso che a volte può compromettere il normale funzionamento di una persona. Come sarà andata questa partita a scacchi non lo sappiamo, però forse ora possiamo addentrarci di più nel tema del rimuginio. Definizione Il rimuginio è un processo mentale in cui il soggetto sperimenta, in modo relativamente incontrollabile, un concatenamento di pensieri negativi ripetitivi riguardanti possibili eventi avversi che potrebbero accadere nel futuro (Sassaroli & Ruggiero, 2003). Dunque il rimuginio consiste di PENSIERI che sono NEGATIVI e RIPETITIVI e verso i quali la persona non sente di avere un controllo. Perché il rimuginio è un processo mentale poco conosciuto? Forse avrete sentito parlare poco di rimuginio, e una motivazione c’è. Se vi interessa questo tema, troverete molti scritti nell’area della psicologia cognitivista. In Italia, il gruppo di lavoro maggiormente operativo è quello di Sassaroli e Ruggiero che sostengono che questa indifferenza rispetto al rimuginio potrebbe essere dovuta alla traduzione inappropriata del termine worry che ha portato a una maggiore confusione rispetto all’uso del termine e non ad un effettivo disinteresse (Sassaroli, Lorenzini & Ruggiero, 2006). Sembrerebbe infatti che il rimuginio sia un sintomo principe del disturbo d’ansia generalizzato e in generale viene legato all’ansia e contribuisce significativamente all’origine e al mantenimento di certi disturbi ansiosi. Ma può essere connesso anche ad altri disturbi come per esempio l’insonnia dove l’individuo soffre di “intrusioni cognitive” che gli impediscono di addormentarsi. Lo troviamo anche nei disturbi alimentari dove le preoccupazioni sono principalmente rivolte al cibo e all’aspetto fisico, nel dismorfismo corporeo dove le preoccupazione sono incentrate su alcune parti del corpo che vengono sentite come brutte e intollerabili per l’individuo. Potremmo dire che il rimuginio può essere presente in modi diversi e può toccare diverse aree, quello che lo contraddistingue è l’incontrollabilità, la ripetitività e il fatto che non consente di trovare realmente soluzioni, ma comporta una specie di paralisi del pensiero e un senso di impotenza. Un po’ come entrare in un loop da cui è difficile uscire. Quando invece sentite parlare di “ruminazione” fate attenzione, perché non si sta parlando di rimuginio, ma di un processo di pensiero tipico della depressione che si differenza dal rimuginio per la forma e per i contenuti. Ne parlerò in un prossimo articolo. Perché si rimugina? La prospettiva cognitivista ha permesso di comprendere che il rimuginio diventa un modo abituale di gestire determinati conflitti emotivi o emozioni disturbanti attraverso l’evitamento cognitivo (Borkovec, 1994; Sibrava & Borkovec, 2006). Le loro ricerche mostrano come si tratti di una risposta di evitamento cognitivo rispetto ad ipotetici eventi futuri che vengono percepiti come minacciosi e che il soggetto tenta di affrontare attraverso l’uso eccessivo del pensiero verbale negativo e di come nasca anche per sopprimere immagini avversive o emozioni disturbanti. Cosa significa? Il rimuginatore cerca di gestire ed evitare le emozioni che lo disturbano usando il pensiero verbale. Qual è la fregatura?
Dunque quella che nasce come strategia per risolvere i problemi conduce in realtà a una minor capacità di problem solving. Il fatto che l’immaginazione visiva scarseggi non consente di rappresentarsi realmente il possibile danno. L’evitamento dell’emozione porta poi al disorientamento e all’incapacità di valutare ciò che soggettivamente viene percepito come giusto o sbagliato, come pericoloso o non pericoloso. Rimuginare diminuisce l’immaginazione visiva Una dimostrazione di questo aspetto deriva da uno studio di Borkovec e Inz (1990) dove è stata comparata la quantità di pensiero e di immaginazione visiva in soggetti con disturbo d’ansia generalizzato e soggetti non ansiosi durante stati di rilassamento e stati di rimuginio indotto. I risultati di questo studio indicano che durante lo stato di rilassamento i soggetti non ansiosi riportavano una quantità maggiore di immaginazione visiva rispetto ai soggetti con disturbo d’ansia generalizzato (DAG) che mostravano una eguale quantità di pensiero ed immaginazione visiva. Invece, durante gli stati di rimuginio indotto sia i soggetti DAG che i controlli mostravano quantità prevalenti di pensiero verbale rispetto all’immaginazione visiva. E’ possibile ipotizzare che, se l’immaginazione visiva rappresenta il veicolo primario per l’attivazione somatica delle emozioni, l’incremento dell’attività verbale costituisca un modo per evitare che ciò avvenga; dunque il rimuginio ha lo scopo, più generale, di evitare gli affetti, e più specifico di evitare un’esperienza ansiosa emotivamente carica. Si rimugina per paura di qualcosa di imprevisto Due ricercatrici cognitiviste, Newman e Llera, (2011), hanno proposto un nuovo modello di rimuginio che si pone in contrapposizione con il modello cognitivo dell’evitamento emotivo finora esposto. Esse suppongono che le problematiche di questi soggetti siano connesse al timore di sentire emozioni negative, ma siano soprattutto connesse alla paura di avere un’esperienza negativa e imprevista che possa modificare improvvisamente il loro stato emotivo. Sembrerebbe dunque che queste persone abbiano la tendenza a percepirsi come emotivamente vulnerabili rispetto a possibili eventi imprevisti e utilizzerebbero il rimuginio per evitare rischi di questo tipo. Il rimuginio infatti consentirebbe il mantenimento di uno stato emotivo prolungato e ciò paradossalmente farebbe sentire il soggetto meno in pericolo. A Presto! Dott.ssa Sara Pontecorvo Bibliografia:
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Rubrica sui meccanismi di difesa10/5/2020 Cari lettori,
ho pensato di proporvi una rubrica che vi consentirà di conoscere alcuni aspetti del funzionamento della nostra mente che sono presenti in modi diversi in ognuno di noi. Vorrei parlarvi di alcuni meccanismi che in ambito psicologico e clinico prendono il nome di "difese", "meccanismi di difesa", "difese psichiche" e sono molto importanti perché spesso regolano il modo in cui gestiamo il dolore, le angosce, noi stessi e le relazioni. Oggi vi spiegherò in cosa consistono e prossimamente vi descriverò alcuni dei meccanismi più importanti. COSA SONO I MECCANISMI DI DIFESA E A COSA SERVONO? Con il termine meccanismo di difesa si fa riferimento a un’operazione mentale che avviene al di fuori della consapevolezza. La sua funzione è quella di proteggere l’individuo dal provare eccessiva angoscia, che si manifesterebbe nel momento in cui diviene consapevole di pensieri, impulsi o desideri inaccettabili. Una funzione addizionale sembra essere la protezione del sé, dell’autostima e, in casi estremi, dell’integrazione del sé, come nel caso delle psicosi (Cramer, 1998). Secondo Vaillant (2000) le difese sono estremamente importanti nel ridurre l’ansia derivante da una dissonanza cognitiva così come le sono nel minimizzare l’ansia che scaturisce dal conflitto tra coscienza e impulsi. Nancy McWilliams (1994/1999) però sostiene che “difesa” sia un termine infelice. Possiamo definirla tale quando opera per difendere il Sé da una minaccia, in questo caso, l’uso della difesa implica l’evitamento di sentimenti angosciosi e/o minacciosi e il mantenimento dell’autostima. Ma le difese hanno anche delle funzioni positive, sono infatti degli adattamenti sani e creativi che durano per tutta l’esistenza. COME FACCIAMO A CAPIRE SE CI DIFENDIAMO IN MODO SANO OPPURE NO? In primo luogo è importante sapere che ognuno di noi privilegia l’uso di particolari difese che poi diventa il nostro modo di affrontare i problemi. Il ricorso a una particolare difesa o "costellazione di difese" deriva, secondo McWilliams dall’interazione di quattro fattori: - la natura dei disagi subiti nella prima infanzia, - il temperamento, - le difese presentate dai genitori - le conseguenze sperimentate dall’uso di specifiche difese. Come facciamo dunque a capire quando ci difendiamo in modo non sano? Partiamo dal presupposto che difendersi fa parte della normalità, se non ci difendessimo, ne andrebbe della nostra sopravvivenza. Quando un individuo è dotato di un "buon funzionamento difensivo", vengono utilizzati in modo non massiccio molteplici meccanismi di difesa differenziati tra loro anche nel grado di maturità (esistono infatti meccanismi di difesa più maturi e più primitivi, a breve spiegherò la differenza). Ciò non significa che non vengano utilizzati meccanismi di difesa primitivi, ma che il loro utilizzo non è così rilevante da impattare sulla vita della persona. Può capitare anche che sottoposti a forti stress o traumi la mente per proteggersi dal dolore, utilizzi tali meccanismi senza però compromettere il nostro funzionamento e il nostro modo di pensare o di approcciarci agli altri. Quando una persona utilizza invece massicciamente una o più difese oppure utilizza moltissime difese più primitive allora ciò sicuramente implicherà un funzionamento meno sano con alta probabilità che queste difese siano accompagnate da sintomi psicopatologici o da veri e propri disturbi di personalità (si veda paragrafo "Difese e patologie"). Tipologie di difese McWilliams distingue tra difese primarie e secondarie. - Difese primarie: sono considerate di “ordine inferiore”, sono “immature” e “primitive” e riguardano il confine tra il Sé e il mondo esterno. Il loro funzionamento avviene in modo globale e indifferenziato fondendo l’affettività, la cognizione e il comportamento, tra queste troviamo il diniego, la proiezione, la scissione, l’identificazione proiettiva ecc. - Difese secondarie (o di “ordine superiore”) sono più evolute e riguardano i confini interni (per esempio, tra l’Io, il Super-Io e l’Es). A questo livello vengono operate modificazioni del sentimento, del pensiero, del comportamento o di una combinazione tra questi, qui troviamo la rimozione, l’isolamento, lo spostamento, la formazione reattiva, la sublimazione ecc. Difese e patologie Spesso le principali categorie diagnostiche utilizzate dai terapeuti per definire i tipi di personalità fanno riferimento all’azione continuativa nella persona di una specifica difesa o costellazione di difese. Ecco alcuni esempi: Un’organizzazione di personalità che ruota attorno alla proiezione viene definita paranoide, mentre una costellazione di difese tipica delle personalità ossessive e compulsive è costituita da isolamento, annullamento, formazione reattiva e spostamento. La personalità narcisistica è caratterizzata dall'uso massiccio di svalutazione, idealizzazione e onnipotenza mentre la personalità borderline ricorre spesso all'utilizzo della scissione, identificazione proiettiva, acting out e proiezione. Spero vi sia piaciuto, per ogni dubbio scrivetemi pure alla mia mail [email protected] A presto! Dott.ssa Sara Pontecorvo Psicologa Bibliografia - Cramer, P. (1998). Defensiveness and defense mechanisms. Journal of Personality, 66 (6), 879-894. - McWilliams, N. (1994). Psychoanalytic Diagnosis: Understanding Personality Structure in the Clinical Process. New York, London: The Guilford Press. (tr. it. La Diagnosi Psicoanalitica., Roma: Astrolabio Editore, 1999). - Vaillant, G. E. (2000). Adaptive Mental Mechanisms. Their Role in a Positive Psychology. American Psychologist, 55 (1), 89-98. |